Il manifesto politico di Marco Pannella
Il leader radicale,
scomparso oggi(19 maggio 2016), è stato un gigante della politica italiana
degli ultimi 40 anni. Amava molto parlare e poco scrivere, ma nel 1973 scrisse
la prefazione a un libro di Andrea Valcarenghi che secondo Pier Paolo Pasolini
era, ed è ancora oggi, il manifesto politico del radicalismo pannelliano
di MARCO PANNELLA
Prefazione al libro
“Underground a pugno chiuso!” di Andrea Valcarenghi. Arcana editrice, luglio
1973
Carissimo Andrea,
mi chiedi una “prefazione” a
questo tuo libro.
L’ho letto e riletto per
settimane, compiendo i gesti della preparazione ad una critica, ad un giudizio,
ad una presentazione, a questa apparente ed ennesima mia complicità o
connivenza con qualcuno di voi. Annoto allora quel che mi par buono, ed è
molto; quello da cui dissento, che non è poco; ricorro alle categorie di bello
e di brutto e trovo bei racconti, davvero, come belle sono tante pagine, rasi,
annotazioni cui dà ogni tanto risalto per contrasto il “brutto” della
proclamazione ideologika-klassista, residuo obbligato del borghesaccio che eri
e che come tutti noi rischi di tornare ad essere, preoccupazione tua e di tanti
altri anziché occupazione piena e creativa; proclamazione, insomma, in luogo di
azione di classe.
Cerco di comprendere perché
mi hai chiesto questo servizio, per meglio adempierlo, umilmente e se possibile
efficacemente, da compagno che accetta e vuole accrescere i labili o inadeguati
motivi comuni di fiducia e di solidarietà. Non ci riesco.
Arrivo a sospettarti dei
calcoli più imbecilli e frustri. Smadonno. Penso ad Umberto Eco,
lettore-prefatore della nostra epoca scritta; ma no, piuttosto a Franco
Fortini, Luigi Pintor, Adriano Sofri, cui dovevi rivolgerti, che dovevi
convincere e che avrebbero saputo cogliere l’occasione per dirci un po’ meglio
di quanto non sappiamo quel che siete, quel che siamo, e per rispondere nello
stesso tempo alle loro diverse e così significative esigenze di moralità
politica. Io queste cose non le so fare. Con all’orizzonte i miei cinquanta
anni ed un quarto pieno di secolo, dietro le spalle, di impegno, di lotte (e di
felicità: qui vi fotto tutti!) non ho scritto un solo libro, un solo saggio,
non ho “pubblicato” nulla – semplicemente perché non ho potuto, perché non ne
sono capace. Scorro le pagine che ti hanno dato Carlo Silvestro e Michele
Straniero, così importanti, adeguate, ben costruite, magnificamente
psico-pirotecniche. Spostale e saranno un’ottima prefazione.
Cosa vuoi da me? Pensi
davvero che il mio nome sia divenuto merce buona per il mercato di
compra-legge, o di chi vuoi o vorresti chiamare alla lettura con questo libro?
No; ne ho la prova, so che sai che non è così. Tu non leggi i miei “scritti”,
le migliaia di volantini ciclostilati, di comunicati-stampa, di foglietti del
Partito Radicale, che sono le sole cose ch’io abbia mai prodotto, in genere
scrivendole in mezz’ora, per urgenze militanti, nella bolgia di via XXIV Maggio
ieri, in quella di via di Torre Argentina 18 oggi.
Tu sei un rivoluzionario. Io
amo invece gli obiettori, i fuori-legge del matrimonio, i capelloni
sottoproletari anfetaminizzati, i cecoslovacchi della primavera, i nonviolenti,
i libertari, i veri credenti, le femministe, gli omosessuali, i borghesi come
me, la gente con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione.
Amo speranze antiche, come la donna e l’uomo; ideali politici vecchi quanto il
secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i canti anarchici e il pensiero della
Destra storica. Sono contro ogni bomba, ogni esercito, ogni fucile, ogni
ragione di rafforzamento, anche solo contingente, dello Stato di qualsiasi
tipo, contro ogni sacrificio, morte o assassinio, soprattutto se
“rivoluzionario”. Credo alla parola che si ascolta e che si dice, ai racconti
che ci si fa in cucina, a letto, per le strade, al lavoro, quando si vuol
essere onesti ed essere davvero capiti, più che ai saggi o alle invettive, ai
testi più o meno sacri ed alle ideologie. Credo sopra ad ogni altra cosa al
dialogo, e non solo a quello “spirituale”: alle carezze, agli amplessi, alla
conoscenza come a fatti non necessariamente d’evasione o individualistici – e
tanto più “privati” mi appaiono, tanto più pubblici e politici, quali sono,
m’ingegno che siano riconosciuti. Ma non è questa l’occasione buona per
spiegare ai tuoi lettori cosa sia il Partito Radicale; andiamo avanti.
Non credo al potere, e
ripudio perfino la fantasia se minaccia d’occuparlo. Non credo ai “viaggi” e
sarà anche perché i “vecchi” ci assicurano sempre che “formano” (a loro
immagine) i “giovani”, come l’esercito e la donna-scuola. Non credo al fucile:
ci sono troppe splendide cose che potremmo/potremo fare anche con il “nemico”
per pensare ad eliminarlo. E voi di Re Nudo dite: “tutto il potere al popolo”,
“erba e fucile”. Non mi va. Lo sai, non sono d’accordo.
Brucare, o fumare erba non
m’interessa per la semplice ragione che lo faccio da sempre. Ho un’autostrada
di nicotina e di catrame dentro che lo prova, sulla quale viaggia veloce quanto
di autodistruzione, di evasione, di colpevolizzazione e di piacere consunto e
solitario la mia morte esige e ottiene. Mi par logico, certo, fumare altra erba
meno nociva, se piace, e rifiutare di pagarla meno cara, sul mercato, in
famiglia e società, in carcere. Mi è facile, quindi, impegnarmi senza riserve
per disarmare boia e carnefici di Stato, tenutari di quel casino che chiamano
“l’Ordine”, i quali per vivere e sentirsi vivi hanno bisogno di comandare,
proteggere, obbedire, torturare, arrestare, assolvere o ammazzare, e tentano
l’impossibile operazione di trasferire i loro demoni interiori (di impotenti,
di repressi, di frustrati) nel corpo di chi ritengono diverso da loro e che,
qualche volta (per fortuna!), lo è davvero. Ma fare dell’erba un segno positivo
e definitivo di raccordo e speranza comuni mi par poco e sbagliato. Né basta,
penso, aggiungervi come puntello il vostro “fucile”.
La violenza dell’oppresso,
certo, mi pare morale; la controviolenza “rivoluzionaria”, l’odio (“maschio” o
sartrianamente torbido che sia) dello sfruttato sono profondamente naturali, o
tali, almeno, m’appaiono. Ma di morale non m’occupo, se non per difendere la
concreta moralità di ciascuno, o il suo diritto ad affermarsi finché non si
traduca in violenza contro altri; e quanto alla natura penso che compito della
persona, dell’umano, sia non tanto quello di contemplarla o di descriverla
quanto di trasformarla secondo le proprie speranze. Insomma, quel che vive,
quel che è nuovo è sempre, in qualche misura, innaturale.
Perciò non m’interessa molto
che la vostra violenza rivoluzionaria, il vostro fucile, siano probabilmente
morali e naturali, mentre mi riguarda profondamente il fatto che siano armi
suicide per chi speri ragionevolmente di poter edificare una società (un po’
più) libertaria, di prefigurarla rivoluzionando se stesso, i propri meccanismi,
il proprio ambiente e senza usar mezzi, metodi idee che rafforzano le ragioni
stesse dell’avversario, la validità delle sue proposte politiche, per il mero
piacere di abbatterlo, distruggerlo o possederlo nella sua fisicità.
La violenza è il campo
privilegiato sul quale ogni minoranza al potere tenta di spostare la lotta
degli sfruttati e della gente; ed è l’unico campo in cui può ragionevolmente
sperare d’essere a lungo vincente. Alla lunga ogni fucile è nero, come ogni
esercito ed ogni altra istituzionalizzazione della violenza, contro chiunque la
si eserciti, o si dichiari di volerla usare.
Se la lotta rivoluzionaria
presupponesse davvero necessariamente: morte di compagni, il loro “sacrificio”
e questa esemplarità, la “presa” del potere; e, a potere preso, o nelle more
della conquista, il ripetere contro i nemici i gesti per i quali io sono loro
nemico, gesti di violenza, di tortura, di discriminazione, di disprezzo,
consideratemi pure un controrivoluzionario, o un piccolo borghese da buttar via
alla prima occasione.
Non sono, infatti,
d’accordo. L’etica del sacrificio, della lotta eroica, della catarsi violenza
mi ha semplicemente rotto le balle; come al “buon padre di famiglia”, al
compagno chiedo una cosa prima d’ogni altra: di vivere e d’essere felice.
Penso, personalmente, che avendo un certo bagaglio di speranze, di idee e di
chiarezza non solo questo sia possibile, ma che non vi sia altro modo per creare
e vivere davvero felicità. Ma esser “compagno” (come esser padre) non è scritto
nel destino né prescritto dal medico. Se le vie divergono, lo constateremo e
cercheremo di comprendere meglio. Ma basta con questa sinistra grande solo nei
funerali, nelle commemorazioni, nelle proteste, nelle celebrazioni: tutta roba,
anche questa, nera: basta con questa “rivoluzione” clausevitziana, con le sue
tattiche e strategie, avanguardie e retroguardie, guerre di popolo e guerre
contro il popolo, di violenza purificatrice e necessaria, di necessarie
medaglie d’oro; la rivoluzione fucilocentrica o fucilo-cratica, o anche solo
pugnocentrica o pugnocratica non è altro che il sistema che si reincarna e
prosegue. Non solo il “Re” ma anche questa “Rivoluzione” vestita di potere e di
violenza è nuda, Andrea. Tollera ch’io lo scriva nel tuo libro, se questa
lettera sarà accolta come prefazione.
E tollera molto altro…
Siete, sei “antifascista”,
antifascista della linea Parri-Sofri, lungo la quale si snoda da vent’anni la
litania della gente-bene della nostra politica. Noi non lo siamo.
Quando vedo nell’ultimo
numero di Re Nudo, ultima pagina, il “recupero” di un’Unità del 1943 con cui si
invita ad ammazzare il fascista, dovunque capiti e lo si possa pescare, perché
“bisogna estirpare le radici del male”, ho voglia di darti dell’imbecille. Poi
penso che tutti sono d’accordo con te, tranne noi radicali, e sto zitto, se non
mi costringi, come ora, a parlare e a scrivere. Capisco le vostre ragioni:
anche voi dovete dimostrare (a voi stessi?) che il PCI è oggi degenerato; che
ieri era meglio d’oggi; che quando aveva armi e potere rivoluzionario era più
maschio, più coraggioso, più duro e puro. Invece (come Partito, qui non
parliamo dei “comunisti”) era semmai, peggio, perfino molto peggio d’oggi.
Comunque non era migliore sol perché teorizzava qua e là l’assassinio politico
e popolare come atto di igiene e di garanzia contro “il male”. Per chi l’ha
ammazzato, certamente, Trotzky era peggio e più schifoso d’un fascista, e ancor
più profonda radice del male. Ma, per voi che riesumate, ad onta dell’Unità di
oggi, quella di ieri, credendo di legarvi così alle tradizioni di classe,
popolari, operaie, non c’era davvero nulla di meglio da recuperare che questi
concetti controriformistici, barbari, totalitari, contro le “radici del male”?
Tu che hai “compreso”, ti
sei sentito “compagno” di Notarnicola (e hai fatto bene); che hai vissuto
almeno quanto me fra sottoproletari, paria, emarginati, come puoi non
comprendere il fascismo di questo antifascismo? Come puoi, ancora, sopportare
l’inadeguatezza dell’ingiuria, dell’insulto, del disprezzo, del manicheismo
dozzinale, classista, non laico, fariseo, nello scontro di classe che cerchiamo
di vivere e di sostenere, nel viver diverso e nuovo che presuppone e che
genera? Perché, anche tu, fra fucile, antifascismo e
poteri-al-popolo-a-pugno-chiuso, continui a vivere di quella vecchia
nuova-sinistra che così puntualmente e efficacemente denunci nel libro?
Come noi radicali, voi
renudisti sostenete che non esistono dei “perversi”, ma dei “diversi”. Nelle
famiglie, nelle scuole, nelle fabbriche o negli uffici perfino i torturatori
sono anch’essi, in primo luogo, e generalmente delle vittime. Tranne che per
certi psicanalisti, uccidere il padre non è la soluzione, non aiuta a superare
l’istituzione, la famiglia; o non basta e non è comunque necessario.
Sosteniamo, insieme, che non
esistono nelle carceri, negli ospedali, nei manicomi, nelle strade, sui
marciapiedi, nei tuguri, nelle bidonville, dei “peggiori”, ma anche lì, dei
“diversi” malgrado la miseria (che è terribile proprio perché degrada, muta, fa
degenerare: e se no, perché la combatteremmo tanto?), malgrado il lavoro che
aliena (che rende “pazzi”), malgrado che lo sfruttamento classista sia “secolare”,
quindi incida sull’ereditarietà. Sogniamo – e v’è rigore e responsabilità nei
nostri sogni – una società senza violenza e aggressività o in cui, almeno,
deperiscano anziché ingigantirsi e esservi prodotte. Sosteniamo che è morale
quel che tale appare a ciascuno. Lottiamo contro una “giustizia” istituzionale
(e “popolare”) che ovunque scambia diversità per perversione, dissenso per
peccato.
Come possiamo, allora,
recuperare proprio in politica, nella vita di ogni giorno nella città, il
concetto di “male”, di “demonio”, di “perversione”? Quel che voi chiamate
“fascista” si chiama “obiettore di coscienza”, “divorzista”, “abortista”,
“corruttore radicale”, “depravato”, per altri.
La “stella gialla” dei
ghetti è un emblema terribile, ma non meno per chi l’impone che per chi
l’indossa.
Ma chi sono, poi, questi
“fascisti” contro i quali da vent’anni ci costituite (non dirmi che non
c’entri, che sei troppo giovane: qui parliamo di generazioni politiche, le
uniche che contino), in unione sacra, in tetro e imbelle esercito della
salvezza?
Mussolini, Vittorio Emanuele
III, Farinacci, i potenti che seppero imporre un regime vincente, senza più
vera opposizione, qual era il fascismo in Italia, furono spazzati via dalla
guerra; senza la quale essi sarebbero ancora al potere come i Franco ed i
Salazar. Furono abbattuti solo perché ritennero che, entrando nel conflitto,
avrebbero guadagnato “con poche migliaia di morti” il diritto di sedersi al
tavolo della pace dalla parte dei vincitori.
Il vero fascismo fu il loro,
non quello della RSI; nato morto, senza potere autonomo. Dal 1948, in Italia,
tutte le forze politiche si sono mobilitare per “ricostruire lo Stato”: questa
“ricostruzione” fu la bandiera degli anni Cinquanta.
In questa ricostruzione che
continua ininterrotta, in questa oppressione che si è riaffermata, che ha
ritrovato la sua continuità ed aumentato la sua forza, dove sono mai i
“fascisti” se non al potere ed al governo? Sono i Moro, i Fanfani, i Rumor, i
Colombo, i Pastore, i Gronchi, i Segni e – perché no? – i Tanassi, i Cariglia,
e magari i Saragat, i La Malfa. Contro la politica di costoro, lo capisco, si
può e si deve essere “antifascisti”, cioè “antidemocristiani”. Noi radicali lo
siamo. Lo sono anch’io, il più laicamente e spassionatamente, cioè il più chiaramente
e duramente, possibile.
Poiché non siamo fatti di
sola razionalità, verso e contro costoro è giusto che anche la nostra emotività
venga mobilitata, secondata. Quanto di sdegno, d’istinto, possiamo avere non
può che essere pienamente indirizzato contro i successori reali, storici, del
fascismo dello Stato. Questo, e non l’altro, è il concreto fronte politico sul
quale oggi si lotta.
Invece, sotto la bandiera
antifascista, si prosegue una tragica operazione di digressione. Come se, negli
anni in cui il fascismo si affermava, si fossero mobilitate le energie
democratiche e popolari innanzitutto contro i Dumini e gli altri assassini
materiali di Matteotti, dei Rosselli, degli antifascisti; o se pensassimo
davvero che fu “fascismo” quello dei ragazzi ventenni che casualmente e
“stupidamente” indirizzarono la loro generosità e la loro sete di sacrificio
verso la Repubblica Sociale, divenendo poi “oggettivamente” sicari dei tedeschi
e dei nazisti, assassini e torturatori. Scatenando, rilanciando la caccia contro
gli Almirante e gli altri ausiliari di classe, di chiesa, di Stato, facendone i
demoni, dando loro dignità di “male”, dirottando sdegno, rabbia, rivolta,
contro di loro, servite oggettivamente il potere, il fascismo, quali oggi
concretamente vivono e prosperano nel nostro paese.
In tutta questa vostra
storia antifascista non so dove sia il guasto maggiore: se nel recupero e nella
maledizione d’una cultura violenta, antilaica, clericale, classista,
terroristica e barbara per cui l’avversario deve essere ucciso o esorcizzato
come il demonio, come incarnazione del male; o se nell’indiretto, immenso
servizio pratico che rende allo Stato d’oggi ed ai suoi padroni, scaricando sui
loro sicari e su altre loro vittime la forza libertaria, democratica, alternativa
e socialista dell’antifascismo vero.
Il fascismo è cosa più
grave, seria e importante, con cui non di rado abbiamo un rapporto di intimità.
Altro che roba da “vietare” con la “legge Scelba” (serve a “sciogliere” la
DC?), da reprimere con qualche denuncia a qualche carabiniere, per legittimare
meglio la funzione antioperaia, o da linciare a furor di popolo – antifascista!
Il rapporto fra
fascismo-capitalismo e sinistra è complesso, allarmante, incombente, presente,
ambiguo, da oltre cinquant’anni, 1973 compreso.
A proposito: veniamo al
libro.
Michele Straniero, nel suo
intervento, ammonisce la sinistra a non lasciar ai fascisti l’elogio e il mito
di Balilla (“Fischia il sasso, il nome squilla, del ragazzo di Portoria/ e
l’intrepido Balilla, sta gigante nella storia”, cantavano a scuola nel
ventennio). A modo suo, e vostro, ha ragione. Sassi come segnali di rivolta, come
detonatori della rabbia e della forza popolari, ne individui anche tu, nel
libro; e ne fai una sorridente e rapida apologia. Leggendoti, avevo pensato
proprio a Balilla che tira il sasso, la popolazione insorge, i nemici scappano,
poi tornano, più numerosi e per sempre. Fine della storia.
Prima di passare ad altro,
ho una confessione da fare. Ti ho letto non solo con attenzione, con consenso,
ma anche con invidia: non riuscirei mai a raccontare con la tua chiarezza, la
tua semplicità, la tua efficacia anche solo una parte delle nostre cronache
radicali, o più semplicemente della mia vita di militante. So che questo
dipende da una migliore intelligenza di quel che si è fatto, che è accaduto,
che si vuole e non (o non solo) da capacità specifiche, “letterarie”: forse
anche per questo è nato e cresciuto il disagio del dover scrivere questi fogli.
E forse a questa invidia dobbiamo far carico se, spesso, nelle pagine migliori,
nei racconti così vivi, rigorosi, animati dell’assedio del Corriere della Sera,
della soirée capannea in piazza Scala mi sono detto che anche mio padre avrebbe
amato poter raccontare le sue avventure universitarie, militari, fiumane, di
studente nazionalista, come tu sai fare, con lo stesso amore per il gioco
ludico, con la stessa innocenza.
Ma basta. Se tutto quello su
cui sono andato scrivendo finora ci divide, Andrea, nulla di ciò è essenziale
nel tuo libro, o nell’esistenza che vi si affaccia e si esprime, e che conosco.
Tu, a Milano, noi altrove, abbiamo dovuto e forse saputo, ogni giorno per anni
quanto lunghi, inventare tutto, rifiutare ogni strumento esistente, ogni
scorciatoia, ogni facilità, per poter avanzare almeno di un poco. I mezzi che
ci si offrivano già pronti, che facevano la forza apparente di tanti altri, non
erano omogenei, non prefiguravano quel che cerchiamo, e cerchiamo di costruire.
La fantasia è stata una
necessità, quasi una condanna, piuttosto che una scelta; sembrava condannarci
ad esser soli, voi lì, noi ancora più sparsi e con più fronti addosso. Così
abbiamo parlato come abbiamo potuto e dovuto, con i piedi, nelle marce, con i
sederi, nei seat-in, con gli happening continui, con erba o con digiuni,
obiezioni che sembravano “individuali” e “azioni dirette” di pochi, in carcere
o in tribunale, con musica o con comizi, ogni volta rischiando tutto,
controcorrente sapendo che un solo momento di sosta ci avrebbe portato indietro
di ore di nuoto difficile, troppo spesso considerati “diversi” dai compagni e
colmi invece d’attenzioni continue, di provocazioni, di colpi da parte dei pula
e non dei minori.
Abbiamo durato, rifiutando
di sopravvivere, ricominciando sempre, facendo anche delle sconfitte materia
buona per dar volto e corpo alle nostre testarde, ed alla fine semplici e
antiche, speranze. Noi abbiamo colto qui qualche successo che tutti ora
riconoscono. Tu anche, ma eri più solo. Questo, nel libro, non riesci ad
ignorarlo, o nasconderlo. Ho sempre pensato a te come ad un compagno impegnato
in un’opera comune, in lotte necessariamente convergenti e da organizzarsi insieme.
Tu no, è questa la differenza. Quando accettai, e tenni a lungo, la “direzione
responsabile” di Re Nudo, fra decine d’altre, non era per abitudine, o con
indifferenza. Non eri un nome di più, un ennesimo compagno di un’ora o d’una
occasione. Un compagno assente, certo. L’altra faccia del tuo libro, vorrei che
tu lo comprendessi, sono le lotte che abbiamo dovuto condurre senza di te, su
cui era giusto e naturale contare, perché le condividevi e le condividi. Le
battaglie per i diritti civili sono mancate a tutto il Movimento: un
inconsapevole razzismo di generazione, un rifiuto di “politica” (quella senza
kappa) un po’ da struzzi, in proposito, un rozzo paleo-marxismo (in moltissimi,
non in te), un’indifferenza che era cecità dinanzi a concreti scontri di classe
e libertari, hanno fatto strage soprattutto a Milano. Così, oggi, sei uno dei
pochi che resti sulla breccia, di tutti i tuoi compagni di un anno, e ci è
andata bene. Ti ho conosciuto in un periodo in cui incontravo Pino Pinelli, Ivo
della Savia, Felice Accame, Carlo Oliva, Oreste Scalzone, e poi Pietro Valpreda
e Roberto Gargamelli o il Marco Maria Sigiani e il Meldolesi, il Risé e tanti
altri che ricordi all’inizio del tuo libro, ma che ben presto scompaiono.
Continueremo ancora a lungo
a marciare divisi? Segnali, ogni tanto, le nostre vittorie – anche se tendi
involontariamente a sminuirle, facendole mie, individuali e non – come sono –
di quel collettivo felice e raro che è il Partito Radicale. Oggi, con la
battaglia che abbiamo iniziata per i dieci referendum abrogativi di tutto il
merdaio legislativo del regime, lo scontro diventa agli occhi di tutti, per
molti versi, generale e conclusivo.
Ancora una volta, ti sarà
concretamente estraneo? Non mi pare possibile né accettabile.
Il tuo è il libro di un
prezioso Gavroche della nostra contestazione, di una generazione politica che è
forse l’unica a non essere ancora interamente battuta dal regime della DC (già
PNF) e dell’introvabile sua opposizione.
Drammatico, solido, rapido e
allegro; anche per me sorprendente autobiografia non narcisistica d’un
militante senza obbedienze (ma senza abbandoni e distrazioni) che racconta come
tutto possa tramutarsi nell’oro o nel miraggio d’una politica nuova e libera:
erba, musica, pipa e fucili di parole o di cartone, penitenziario militare,
carcere giudiziario, aula di tribunale, una soirée alla Scala, giochi violenti
attorno al grande Corriere, un po’ di vernice su un monumento da scoprire, una
caserma, un albergo, voterò per questo libro quando sarò chiamato a far parte –
prossimamente – nelle giurie del Viareggio, dello Strega, del Campiello.
Avrò argomenti per
difenderlo, lettori per sostenermi. Lo leggeranno i trentamila del festival di
Zerbo; altri cinquemila renudisti che non riuscirono ad arrivarci; i diecimila
della Statale che han fatto in questi anni – come racconti – clap-clap al
Capanna; il mezzo migliaio di compagni che ti han conosciuto nelle carceri
militari e civili o in caserma; i vecchi beatniks, provos, onda verde, hippy,
situazionisti, freaks di questi dieci anni, dalle lotte contro le diffide ed i
fogli di via, al Vietnam; gli “zii” – ed i nipoti del Partito Radicale, che
ormai son tanti…e i gruppi collegati di “Stampa Alternativa, di Marcello
Baraghini e Guido Blumir. Un centinaio di migliaia di persone; anche se,
proprio loro, non ne avrebbero bisogno.
Consiglierei piuttosto di
leggerlo ai genitori-disperati per i figli-persi e contestatori; ai
progressisti-bene in mal di politica dei redditi e di programmazione, sconvolti
ed indignati di non esser divenuti i vostri idoli; a quanti si meravigliarono e
scandalizzarono nel vedere le rare sedi del prestigioso partito dei Pannunzio e
dei Carandini, dei Benedetti e dei Piccardi divenute il ritrovo e il covo di
bande sottoproletarie e capellute, di studenti in rivolta e comunisti, di
anarchici e trotzkisti, prima ancora di riempirsi di fuori-legge del matrimonio
e di obiettori di coscienza, di femministe e di omosessuali, di freaks e di
abortisti, di veri credenti e di vegetariani nudisti, di “avanzi di galera”
d’ogni genere. Capirebbero finalmente qualcosa di se stessi, oltre che di voi,
di noi. E le loro facce ne diverrebbero meno peste e bolse.
Altri, scorgerebbero in
questa storia un affresco felice d’una Milano troppo a lungo e tetramente
edita: quella stessa d’un altro – ma celeberrimo – scrittore di storia e lotte
meneghine: il prefetto Mazza, con i suoi corifei dello Specchio. E avrebbero
pienamente ragione: come chi preferisce sottolineare quanto facile e piacevole
sia leggerti.
Ora basta. Ho da occuparmi
di trovare il primo milione per il quotidiano del PR. Sembra che sia urgente.
Se ho ben capito, infatti, per un quotidiano (anche se minimo, anche se
“alternativo”) è necessario poco meno di un mezzo miliardo in un anno.
Con Re Nudo, mi darai una
mano?
(da radio radicale)
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